Museo Diocesano d'arte sacra - Rossano Calabro

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Il Museo diocesano fu inaugurato nel 1952 per volere dell'arcivescovo Giovanni Rizzo e la collezione esposta occupa oggi le sale degli antichi locali della sagrestia della Cattedrale intitolata alla Madonna Achiropita.

La raccolta del museo di Rossano è costituita perlopiù da oggetti liturgici (dal celeberrimo Codex Purpureus all'anello di San Nilo ecc.) che provengono dal tesoro della Cattedrale e dalle chiese di Santa Maria della Rocca, di Santa Maria del Soccorso, dal palazzo arcivescovile, dal Comune, da dimore private e altre chiese limitrofe ed è costituito da 10 sale espositive.

Il Codex Purpureus, unicum in Calabria e nel meridione e pertanto fiore all'occhiello della collezione museale rossanese, è un evangelario illustrato di 188 fogli di pergamena purpurea su cui sono riportati i Vangeli di Matteo e Marco fino al verso 14 del capitolo XIV e una parte della lettera di Eusebio a Carpano.

16 fogli sono miniati e illustrano la vita di Cristo; il Codex fu segnalato nel 1846 e scoperto da studiosi tedeschi nel 1879 destando immediatamente attenzione e studi specialistici a partire dalla prima ipotesi che fosse stato portato in Italia dai monaci basiliani in fuga provenienti dall'Oriente.

A partire dal 726, infatti, anno in cui l'imperatore Leone III l'Isaurico, emanò l'editto di proibire il culto delle immagini sacre, i monaci basiliani presero ad emigrare in occidente; molti si stabilirono in Calabria alle pendici della Sila, dando impulso alla diffusione del monachesimo basiliano e vivendo sia in eremitaggio sia in comunità.
Sorsero tuttavia cenobi di rilevante spessore spirituale e culturale come il Patirion e il Mercurion che furono strutturati sul modello del Monte Athos e chiamati Nuova Tebaide e in essi i monaci attesero al lavoro manuale, scrissero le Sacre Scritture, miniarono Codici e li copiarono, sull'esempio di San Nilo.

L'Evangelario purpureo della Cattedrale di Rossano fu scoperto da Oskar Von Gebhardt e da Adolf Harnack ma furono molti gli studiosi che vi si accostarono anche perchè, avvicinato alla famosa Genesi di Vienna e al Codice Sinopense (evangelario della città di Sinope) il Codex costituiva con essi un gruppo di codici del VI secolo di straordinaria importanza.

Richiesto dalla Biblioteca Vaticana fu concesso in prestito per molte mostre e studiato approfonditamente da Antonio Munoz.
Il primo foglio presenta la Resurrezione di Lazzaro che non è un'esatta rappresentazione dell'episodio narrato nel vangelo di Giovanni (XI, 1 4-5) ma il momento successivo al miracolo; ugualmente libera è l'immagine successiva dell'Entrata di Gesù in Gerusalemme ecc.

Per la loro eccellenza queste pagine miniate, espressioni dell'arte bizantina pienamente maturata, destarono interesse non solo relativamente alla datazione (visto che le caratteristiche paleografiche la riconducono alla seconda metà del VI secolo), quanto piuttosto sul centro in cui esse furono prodotte, al pari di quelle dei Codici vicini all'Evangelario di Rossano: la Genesi di Vienna e il Frammento di Sinope.
Inizialmente si pensò anche all'Italia meridionale, anzi alla Campania (Wickhoff); nonostante i pareri diversi, ancora nel 1928 il Weigand insisteva sull'origine suditaliana del Codice.
Ma fu il Ludtcke che, basandosi sulla rispondenza della rappresentazione di animali, piante e fauna ad un preciso ambiente, propose come luogo di origine Antiochia o meglio un centro dell'Asia Minore, seguito dallo Haseloff che, oscillando fra la Siria e l'Asia Minore, ritenne le miniature derivate da pitture parietali e affini ai mosaici teodoriciani di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, alle figurazioni delle colonne del ciborio di San Marco a Venezia e alle pagine miniate dell'Evangelario di Tabula, opere di cultura siriana.

Dopo una serie di diatribe il Nordenfalk affermò che il centro di produzione doveva essere Costantinopoli aggiungendo anche che l'uso della porpora era divenuto monopolio imperiale dopo che un editto di Teodosio aveva vietato la vendita di stoffe di quella materia e di quel colore, i codici purpurei dovettero essere esemplari per l'imperatore perché potesse disporne anche come doni, e per la corte.
Il dibattito è continuato sulla scia delle due posizioni Siria-Bisanzio; nel Rossanense colpiscono l'estro narrativo e la forza drammatica delle figurazioni in un racconto che non conosce soluzioni di continuità con vitalità nei personaggi e composizioni di ampio respiro.

Si tratta dunque di un Codice di eccezionale valore che, sebbene mutilo, offre un ricco insieme di miniature rilevanti per le soluzioni iconografiche e le qualità formali; un codice giunto anticamente in Calabria, forse nel VII secolo, portato con molta probabilità da monaci non sappiamo se proprio nella cattedrale di Rossano nella quale, tuttavia, è testimonianza altissima dell'arte dell'impero bizantino, della quale quella siriana fu un'originale e vitale componente.

Testi e foto tratti da provincia.cs.it/retemuseale
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